Non basta chiedere più scuola, se non è scuola di qualità

Non basta chiedere più scuola, se non è scuola di qualità

Bisogna fare scuola fino ad agosto, per recuperare il disastro. Le vacanze aumentano le differenze e vanno limitate. La didattica a distanza ha rovinato una generazione, o almeno ha rovinato quelli che erano sfavoriti. Ci vuole più scuola ogni giorno per recuperare le disuguaglianze.

A ondate successive questi assunti vengono propagati sui social e sui media con tono ultimativo e perentorio, ed il cipiglio grave. Pochi capiscono davvero come funziona o non funziona la scuola. Tutti però ci sono stati. E quindi amano avere delle idee, se possibile robuste e categoriche, su come si dovrebbe intervenire. Si intuiscono alcuni sintomi, non ci si attarda in diagnosi accurate, ma si prescrivono con apodittica certezza delle cure. E questi assunti, che si collocano fra la tautologia e la dichiarazione di guerra al mondo della scuola, piacciono. Perché in quasi tutte le famiglie italiane la scuola è stata, in un momento o in un altro, fonte di cocenti delusioni. Ma pur essendo parzialmente verosimili, queste asserzioni non sono anche parzialmente sbagliate?

In linea di principio è difficile sottrarsi all’evidenza totalmente ovvia che ogni ora che un bambino passa, a partire dalla sua nascita, in una famiglia colta, stimolante, affettiva otterrà sulla sua personalità risultati ben diversi rispetto ad ogni ora passata in una famiglia incolta, non stimolante, anaffettiva. Si dà però il caso che le famiglie reali siano una mescolanza infinitamente variata di queste e molte altre qualità o difetti. Quindi le disuguaglianze, forse le più gravi, sono cadute fra di noi al momento stesso in cui siamo stati assegnati ad una condizione di relazioni primarie. Prima ancora che ad un ceto o a uno status sociale.

La nostra Costituzione ci chiede, e ne siamo orgogliosi, di operare non solo per una uguaglianza formale davanti alla legge, ma anche per una sostanziale rimozione degli ostacoli a favore dello sviluppo e della partecipazione delle persone. Non impone una medietà, e meno che mai una mediocrità generalizzata, ma indica uno slancio verso il superamento dello svantaggio, verso la realizzazione delle potenzialità, verso l’alto.

Una soluzione classica alla disuguaglianza è quella del modello spartano: teoricamente, maggiore è la sottrazione del bambino all’ influenza educativa della famiglia e più ampio è il raggio d’azione della collettività, più forte sarà l’uguaglianza. Certamente se i bambini passassero l’estate a scuola, il pomeriggio a scuola, la domenica a scuola il livellamento sarebbe più efficace.

Tralasciamo per adesso la complessità dei bisogni psicologici dei bambini e dei ragazzi; a che livello riusciremmo a portare gli esiti di un educazione fortemente caratterizzata da una generalizzata equiparazione degli input sugli allievi? Dipende dalla qualità degli insegnamenti impartiti. E quindi dalla ricchezza degli apprendimenti che si riescono a sollecitare. Una scuola mediocre non riuscirebbe che a livellare al basso.

Uscendo dalla ipotesi paradossale e tornando alla realtà: la scuola funziona come emancipatrice e promuove opportunità quando è competitiva con i migliori ambienti di provenienza degli alunni. Una scuola mediocre non risarcisce della mancata sollecitazione culturale, linguistica, espressiva, logica, creativa, progettuale chi ne è stato privato, fortuna che è invece capitata in sorte, senza alcun merito, agli alunni più favoriti. Una scuola pervasiva ma di cattiva qualità potrà semmai abbassare gli standard dei privilegiati, ma non alzare le opportunità degli sfavoriti.

Ma allora per funzionare ed assolvere ai compiti costituzionali la scuola ha bisogno delle migliori risorse umane, delle intelligenze più brillanti, delle creatività più intense. Eppure è il settore in cui sistematicamente, a ondate, si entra senza selezioni. E’ il settore in cui i filtri di accesso, quando ci sono, sono aleatori e imprevedibili, frutto delle improvvisazioni stagionali della politica, con procedure e percorsi introdotti e bruciati nel giro di pochi anni, creando costanti disparità e fortuiti diritti di accesso che nulla hanno a che fare con la qualità professionale. E’ il settore verso il quale, nei territori dove l’economia tira, ci si rivolge solo residualmente. E’ il settore in cui anche quando si favoleggia di aumenti stipendiali non si connettono mai le elargizioni alla professionalità.

Di fronte ad alcuni infelici esiti della scuola italiana (disuguaglianze, abbandoni, sperequazioni fra aree del paese, scarsità delle eccellenze, risultati mediocri nelle valutazioni oggettive delle competenze ) ci si pone spesso (peraltro inconcludentemente) la questione delle risorse allocate, del tempo scuola erogato, delle strutture edilizie disponibili. Tutte condizioni necessarie per l’effettività della scuola.

Ma non si discute della qualità dell’insegnamento, della adeguatezza dei percorsi, della pregnanza della esperienza educativa. Chi volesse riformare davvero la scuola dovrebbe porre come fondamento una seria selezione, preparazione, crescita intellettuale e didattica dei docenti.

Se vogliamo una scuola che sopperisca agli svantaggi, questa scuola deve essere qualitativamente in grado di competere con i contesti più fortunati: deve essere più stimolante, più intelligente, più sollecitante, più motivante della migliore delle famiglie. E’ ora di porsi domande serie sulla qualità e non solo sulla quantità della scuola.

Ma torniamo alla complessità psicologica dell’educazione: siamo sicuri che la prescrizione di tempi di scuola più ampi non debba tenere conto anche della soggettiva disponibilità degli alunni o della concomitante presenza di altri bisogni? Non ci stiamo dimenticando che il bambino necessita un equilibrio fra esposizione alla sfera pubblica e intimità familiare? E man mano che cresce ha bisogno di partecipare ad attività associative, sportive, ricreative fra pari, che affinino capacità socio-affettive e skills trasversali? Gli orari delle strutture educative sono realmente funzionali alle esigenze psicologiche del bambino o devono solo seguire gli orari di lavoro dei genitori? Le scuole per i più grandi devono avvantaggiarsi della motivazione degli studenti o esercitare solo in una logica di coercizione?

Nella accesa discussione sul prolungamento della scuola durante l’estate tutto si è tirato in ballo: corporativismo degli insegnanti, carenze irreversibili di competenze, lavoro dei genitori, chiusure dei sindacati, misurazioni dei contenuti persi; tutto fuorché i bisogni degli alunni, la loro soggettiva condizione di motivazione o di fatica di fronte a una ipotetica frequenza scolastica estiva. Si presuppone che lo stesso ragazzino che per mesi si è defilato dalla dad sia invece assiduo frequentatore di scuola a luglio. Salvo magari scoprire a posteriori che i ragazzi più favoriti hanno maggiormente fruito dei servizi aggiuntivi, e quelli sfavoriti vi si sono sottratti.

Le politiche di conciliazione sono fondamentali. E dopo un anno terribile per le famiglie come questo, la necessità di supporti consistenti nella cura dei figli è una assoluta priorità. I genitori giovani sono i veri eroi della pandemia.

Però nel guardare avanti e oltre alla pandemia ricordiamoci che la soluzione non è solo più scuola, se la scuola non è eccellente. E che la scuola, con la sua verticalità gerarchica, con i compiti di istruzione che la caratterizzano, con la prescrittività di prestazioni e comportamenti, non può essere l’unica agenzia educativa alternativa alla famiglia.

https://www.huffingtonpost.it/entry/non-basta-chiedere-piu-scuola-se-non-e-scuola-di-qualita_it_605de697c5b67ad3871f023f?utm_hp_ref=it-homepage

Dare aria alle scuole


Sono entrata in un bel negozio di abbigliamento. Il cartello era chiaro: si entra in 5 al massimo. Eppure era grande almeno come un’aula scolastica. Ma in un’aula scolastica si entra in media in 20. Nel negozio si passa qualche minuto, nell’aula qualche ora. La porta del negozio di apre ogni volta che entra un cliente, quella dell’aula solo a ogni cambio d’ora. La mascherina nel negozio è obbligatoria da mesi, in aula da poche settimane.

Il 7 gennaio torneranno a scuola anche gli studenti delle superiori. Dopo una lunga trattativa il punto di caduta è stato fissato nel rientro a metà (fino a nuovo ordine).

Se metà significherà che metà della classe sta a casa in collegamento con l’aula e metà va a scuola (con turni quotidiani, o settimanali, a gruppi stabili o mescolando i gruppi) ci saranno in media solo 10 ragazzi in un’aula ogni mattinata.

Se invece entreranno a turno metà delle classi ci saranno metà delle aule inutilmente vuote e metà aule con 20 studenti per 6 ore chiusi dentro. I trasporti saranno alleggeriti, ma il distanziamento nelle classi resterà quello minimale del metro e l’aria sarà raramente cambiata viste le temperature rigide invernali. Una serie di indagini scientifiche, modellizzate in tanti video che abbiamo tutti visto online, ci mostrano come si mescolano in una stanza chiusa le emissioni (fiato, tosse, starnuti ecc..) di ciascun individuo.

In Germania mezzo miliardo di euro è stato speso negli ultimi mesi per dotare le scuole di impianti di ventilazione meccanica in grado di fornire il ricambio di aria alle aule e permettere una permanenza a scuola più sicura. In Italia si è speso tre volte tanto per banchi con o senza rotelle e ci si è ritrovati con i banchi deserti nelle aule chiuse. Eppure sistemi che garantiscano una buona qualità dell’aria in aule in cui si stipano per tutta la stagione invernale tante persone sarebbero utili anche una volta superato il Covid. Non sono costi proibitivi. Se solo permettessero un rientro più certo e in sicurezza nelle nostre scuole sarebbero soldi spesi bene. Almeno varrebbe la pena provare in qualche scuola a installarli. E poi verificare se ci sono miglioramenti o no.

E’ chiaro che la didattica migliore è quella che si fa con tutta la classe a scuola. Ma la didattica migliore è quella senza pandemia, e noi la pandemia l’abbiamo ancora, e probabilmente per qualche mese, finché il vaccino non ci fa la grazia, non ce la togliamo di torno. Allora dobbiamo trovare un equilibrio fra capacità di adattare le didattiche e la vita relazionale alle restrizioni che servono a contenere la diffusione del morbo, oppure rassegnarci a focolai, malati e continue quarantene.

Ogni scuola cercherà il suo equilibrio, magari con qualche soluzione creativa: sfasamento degli ingressi, utilizzo di altri locali, turni in verticale ecc…

Ma se non ci sarà una attenta ricognizione delle diverse modalità operative messe in campo al rientro e se non ci sarà un puntuale rilevamento, tracciamento, statistica dettagliata dei contagi fra alunni e insegnanti, non avremo imparato nulla. Ripeteremo opinioni pregiudiziali, o citeremo ricerche fatte in contesti diversissimi dal nostro. Ma non ci capiremo ancora nulla.

Per mesi si è ripetuto il mantra che la scuola era sicura, soprattutto da parte di chi aveva il compito di rendere le scuole sicure e non lo aveva fatto. E si sono accuratamente nascosti i conteggi dei contagi in ambito scolastico in modo che ciascuno conoscesse solo i pochi casi a lui prossimi, ma mancasse un quadro generale della questione. A oggi l’opinione pubblica non sa quanti insegnanti si siano ammalati, e invece sarebbe dirimente saperlo, anche per capire l’incidenza che hanno i trasporti sulla diffusione del virus, dato che spesso i mezzi pubblici riguardano molto più gli alunni che i professori. E mi stupisco che la difesa sindacale si concentri a volte di più su quali prestazioni siano dovute e quali no da parte dei docenti, piuttosto che sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori.

Mai come in questi mesi ci si è rivolti alla scienza. Ma la scienza non è disvelamento magico, o sapienza oracolare. La scienza ha bisogno di sperimentare. La pandemia è un mega-esperimento involontario. Ma volontaria può e deve essere la decisione di indagarlo. E quindi abbiamo bisogno di trasparenza, accessibilità, intelligente articolazione dei dati che raccontano i fatti. Dobbiamo poter raccogliere e trarne cognizioni utili per capire quali siano i livelli di rischio e modificare in funzione di questo norme e comportamenti. Non saranno esercizi retorici o postulazioni di principio, ma una attenta indagine dei fenomeni a farci capire come ottimizzare le possibilità di fare didattiche ragionevolmente buone minimizzando i rischi.

Lotta al virus o alla mascherina?

Nel dubbio e nella confusione di messaggi ufficiali e ufficiosi il Presidente della Consulta dei Genitori lancia un questionario per chiedere a genitori, docenti e studenti cosa pensano della mascherina e se ritengono che i genitori vogliano continuare a mandare i bambini a scuola pur con obbligo di mascherina o se preferiscano tenerli a casa (curiosa richiesta: la frequenza scolastica non è un optional). Io il questionario l’ho ricevuto su whatsapp da amici, e, come mi hanno fatto osservare, si compila e si può ricompilare all’infinito: nessun controllo.

Non credo che un’ indagine statistica seria arriverebbe alla conclusione che i genitori pensano che il pericolo per i loro figli non sia il Covid, il crollo dei redditi da epidemia protratta, il debito accumulato sulle loro teste, ma la mascherina chirurgica (quella che svariati medici, che qualcosa di salute sanno, tengono a giornate addosso).

Gli ospedali si riempiono, i medici lanciano allarmi sempre più gravi, la diffusione del virus sta condannando categorie intere al crollo delle loro attività economiche. Per evitare tutto questo si chiedono tre cose: mascherine, distanziamento, rarefazione dei contatti.

I genitori attenti sanno che i bambini delle elementari sono spesso molto più corretti e sensibili dei grandi nell’adempimento dei loro doveri : sempre che siano comunicati con serenità e senso della necessità.

E la mascherina è uno di questi doveri: non perché piace ma perché serve.

Serve a diminuire la probabilità di passarsi il virus in classe, perché il respiro si mescola, e con esso la nebulizzazione contenete il virus nel caso ci sia un asintomatico in classe (caso sempre più probabile). Per salvare i nonni a casa, ma anche i genitori quarantenni. Per non far ammalare gli insegnanti, che continuano a fare il loro lavoro perché i bambini non si ritrovino chiusi a casa.

Quello che mi chiedo è da dove nascano ansie e paure che si accendono costantemente da parte di alcuni genitori sulle mense scolastiche, sulle vaccinazioni, e adesso sulle mascherine, e che li vedono psicologicamente in perenne assetto di guerra di fronte alla scuola. Mentre non vedo muoversi nessuna protesta sul fatto che stiamo lasciando ai bambini un mondo devastato dai cambiamenti climatici, dalla prospettiva di futura cronica sottooccupazione, dalla proliferazione di armamenti.

Che accudimento è quello che si esercita negando la ragione e l’evidenza scientifica, e soprattutto negando la capacità di adattamento, il far di necessità virtù, e quel minimo di autocontrollo che ti permette di fare un poco di fatica per un obiettivo che sia serio? In questi mesi una litania continua di psicopedagosti professionisti o dilettanti ha disegnato scenari terrificanti sugli effetti traumatici che l’epidemia porterebbe sulla psiche dei giovani.

Non credo affatto che la generazione dei giovani sia così terribilmente fragile. E invece credo che più la riteniamo fragile, meno saprà essere forte. E’ sbagliato proiettare su di loro la convinzione della loro incapacità di reagire e di adattarsi, di tirar fuori le loro risorse e di superare la crisi. Educare significa anche fidarsi: fidarsi della capacità dei bambini e dei ragazzi di crescere, di affrontare sfide, di interagire con le difficoltà, di assumersi progressivamente il gusto della responsabilità. Fosse pure la responsabilità di non far passare il virus. Sapere di aver contribuito a qualche disastroso contagio o alla crescita della epidemia farebbe molto più male ai nostri bambini e ragazzi che il fatto di indossare una mascherina.

L’ ansia da prestazione di mamme e papà distratti da mille impegni e spesso confusi su cosa sia veramente quello che desiderano per i loro figli in termini di vita buona si impiglia a volte in pretesti, in dettagli, in futilità. Raramente però si mette in discussione la pervasività delle chat dei figli, le giornate passate sui giochi elettronici, la diseducazione dei media cui sono esposti. Perché metterebbe in discussione il significato dell’educazione e quale sia la speranza e il senso della vita che investiamo sui figli. Meglio prendersela con quel terzo soggetto che è la scuola. O con la società. O con chi detiene il potere e la responsabilità di imporre divieti.

Che se poi chi deve gestire i danni sanitari e sociali ha contribuito a diffondere demagogiche negazioni del pericolo e delle necessità di provvedimenti, la cosa si complica ulteriormente.

L’incapacità di prevedere e provvedere non ha scusanti. Ma neanche la testa messa nella sabbia per non vedere morti e malati.

Passerà prima o poi l’epidemia. I ragazzi torneranno a riunirsi liberamente, ritorneremo a fare scuola a scuola, meglio di prima, perché avremo imparato a usare il digitale.

La generazione di Degasperi ha subito la dittatura e il fascismo, ed ha però ricostruito l’Italia.

Fantadidattica

Scuole aperte.

E classi in quarantena. O classi in isolamento in attesa del tampone per mettersi poi in quarantena ufficiale. O classi presenti con alunni in quarantena. O ragazzi in autoisolamento preventivo per sintomi in attesa di un tampone.

Un tempo sui registri si segnava presente o assente: erano i due stati della materia. Tutt’al più ufficiosamente c’era lo studente distratto, che guardando fuori dalla finestra e pensando ai fatti suoi era presente ma non collegato.

Invece ormai i nostri registri pullulano di notazioni, eccezioni e precisazioni che non si erano mai viste. Assente per quarantena ma collegato. Assente al collegamento della classe in DAD per quarantena. Classe presente ma alunno assente in autoisolamento preventivo. Collegata la classe in DDI ma orario ridotto, con partecipazione in differita alle ore asincrone. Collegato in remoto con orario usuale ma ore accorciate. Classe collegata con orario sincrono ridotto e orario asincrono integrativo. Collegamento saltato per computer impallato e lezione sostitutiva asincrona.

Lo sanno tutti: la didattica a distanza non può essere una semplice didattica in presenza teletrasmessa. Quindi se arrivi a scuola e la classe nella notte è stata esiliata a casa devi inventarti qualcosa di adatto alla nuova situazione: devi metterti davanti allo schermo aprendo il collegamento, invitando i partecipanti e soprattutto tirando fuori dalle tue strumentazioni didattiche e dalla tua capacità comunicativa qualche cosa che riesca a intercettare l’attenzione dei ragazzi, e a far proseguire la continuità didattica.

E se perdura l’insegnamento a distanza le Linee guida indicano la necessità di rivedere l’orario settimanale contraendo le ore in collegamento ( più pesanti e faticose) e integrandole con ore asincrone (lavoro assegnato ma senza collegamento diretto). Quindi si deve rivedere l’orario riducendolo e ogni insegnante deve proporre attività didattiche digitali che vengano svolte nei momenti che i ragazzi preferiscono per reintegrare il monte ore.

E se l’insegnante è a sua volta capitato in una classe con elementi sospetti o positivi al covid? La classe sta subito a casa, ma il docente continua a insegnare. Incrociando le dita e aspettando il tampone. E se invece ha sintomi? A quel punto deve certamente assentarsi. E quindi la classe si collegherebbe ma il docente non è presente.

Però ufficialmente la scuola è in presenza.

E mentre noi facciamo didattica remota dalla presenza o didattica in presenza ma anche remota e annotiamo questa fantadidattica nei nostri sempre più pirotecnici registri, le scuole sono ufficialmente aperte.

E i pedagogisti benpensanti non perdono occasione per affermare che la didattica in remoto è un imbroglio e che tutto ciò che ci stiamo inventando per salvare la continuità didattica con collegamenti e classi virtuali non è scuola ma sono bagatelle e pinzillacchere.

Per la scuola non fiori ma opere di bene

Ho letto le apprezzabili parole di Tiziano Salvaterra, ex assessore all’istruzione e stimato padre della legge sulla scuola trentina. Legge e sistema educativo che noi ex colleghi assessori delle altre regioni allora invidiavamo. La sua e molte altre voci di persone che la scuola la conoscono, soprattutto quelle di chi per la riapertura delle aule scolastiche ha lavorato indefessamente, testimoniano un attaccamento alla priorità dell’educazione, che forse vede troppa parte dell’opinione pubblica distratta.

Il problema è che per rafforzare il ruolo della scuola, anche dall’attacco della pandemia, ci vorrebbero non solo difese di principio, ma conoscenze puntali delle modalità di diffusione del virus e delle difese che possano salvaguardare almeno un parziale mantenimento della presenza a scuola.

Alcune scuole in Italia lavorano già fin da metà settembre alternando didattica a distanza e didattica in aula. Hanno diviso le classi in gruppi più piccoli, stabilito turni per l’accesso e l’uscita, e riescono a operare un distanziamento più deciso e nello stesso tempo sottraggono la metà della utenza scolastica ai mezzi di trasporto. In Lombardia per esempio molti istituti scolastici hanno scelto questa soluzione, compatibile con le norme sull’ autonomia e con le Linee guida ministeriali.

Peccato che nessun dato sia stato raccolto (o diffuso) dal ministero per valutare una eventuale differenza nella reazione alla pandemia delle scuole che hanno da subito alleggerito la pressione sugli edifici e sui trasporti e quelle che invece sono andate da subito in presenza totale.

E peccato che nessuna ricerca sia stata impostata su un campione di scuole per sapere quale percentuale di contagiati asintomatici sia presente in media nelle scuole fra studenti, docenti, personale Ata. La ricerca a campione sulla popolazione italiana curata dall’Istat e operata dalla Croce Rossa questa estate ci ha dato finalmente risposte esaustive sulla percentuale reale di quegli asintomatici sfuggenti a ogni osservazione che però a loro stessa insaputa contagiano gli altri. Si fosse impostata una ricerca simile su un campione rappresentativo di scuole in questo primo mese sapremmo molto di più sui focolai e sui meccanismi di diffusione del contagio in ambito scolastico.

E ancora peccato che non ci siano dati sulla epidemia che distinguano fra le scuole in cui, rispondendo ai criteri disposti dal ministero, si sta senza mascherine in classe, purché seduti distanziati un metro, e quelle in cui invece saggiamente sono state prescritte le mascherine per tutto il tempo di permanenza nell’edificio scolastico.

E inoltre ignoriamo quanto siano distribuiti focolai e quarantene fra i diversi segmenti del percorso scolastico: le abitudini quotidiane dei bambini della scuola primaria e quelle dei liceali differiscono enormemente. Diversamente incidono gli utilizzi del trasporto pubblico, per esempio. Sarebbe stato utile studiare in quale configurazione si danno meccanismi di diffusione dei contagi più significativi.

Insomma: come si fa a reagire razionalmente a un fenomeno che non conosciamo?

Le scuole hanno investito enormi energie per eseguire i dettami relativi alle misure di contenimento della epidemia. Ma non sappiamo di quale efficacia ciascuna di queste misure sia dotata se non sappiamo interrogare empiricamente i risultati. Non perché manchino idee di ricerca, ma perché manca una cabina di regia che produca indagini trasparenti, finalizzate a rispondere a questioni precise e utili.

L’affermazione che la scuola è sicura è detta col cuore da chi ama la scuola. Ma dovrebbe essere il risultato di ricerche epidemiologiche e statistiche, non dell’ottimismo della volontà.

Molte classi comprese le mie hanno già sperimentato la scoperta di avere dei contagiati fra gli alunni. La mia richiesta di tenere comunque sempre la mascherina durante le lezioni è oggi più comprensibile per i miei studenti di quanto non fosse all’inizio. Stare per ore accanto a una persona contagiata, seppure a un metro di distanza, è tutt’altro che privo di rischi. La prova provata della sufficienza delle misure adottate per le scuole verrebbe dal controllo effettivo dei focolai scolastici. Ma questo presupporrebbe la sistematica e veloce attuazione del tampone almeno su tutti i compagni di classe. Cosa che non avviene affatto. Dopo di che, senza tracciamento, se nella catena dei contagiati asintomatici ( come spesso sono i nostri ragazzi) a un certo punto spunta un sintomatico, magari grave, nessuno sa più da dove arrivi il suo caso. Compresi i docenti meno fortunati.

Gli insegnanti, trattati da lavativi quando si ingegnavano a fare la Dad da casa (ancora mi fa male sentir dire che le scuole sono state chiuse tre mesi, posto che ogni giorno facevo lezione con i miei studenti), adesso sono chiamati, in caso di didattica digitale, da una geniale circolare del ministero dell’istruzione a fare lezione online in presenza, a scuola. Una specie di tributo a quella parte dell’opinione pubblica, arrabbiata e spaventata, che confonde la lotta al virus con la lotta alla prevenzione dal virus.

Movimentare, in tempi di epidemia, ottocentomila persone che potrebbero invece lavorare da casa (senza alcuna motivazione in termini di efficienza del servizio e senza garantire peraltro necessariamente dispositivi e collegamenti più efficaci) è una invenzione burocratica caratterizzata da sottile perversione. Per fortuna che, come atto amministrativo, per adesso non riguarda il trentino.

Sulla scuola servono dati

Sulla scuola servono

Alcune scuole lavorano già fin da metà settembre alternando didattica a distanza e didattica in aula. Hanno diviso le classi in gruppi più piccoli, stabilito turni per l’accesso e l’uscita, e riescono a operare un distanziamento più deciso e nello stesso tempo sottraggono la metà della utenza scolastica ai mezzi di trasporto. In Lombardia per esempio molti istituti scolastici hanno scelto questa soluzione, compatibile con le norme sull’autonomia e con le Linee guida ministeriali.

Peccato che nessun dato sia stato raccolto (o diffuso) dal ministero per valutare una eventuale differenza nella reazione alla pandemia delle scuole che hanno da subito alleggerito la pressione sugli edifici e sui trasporti e quelle che invece sono andate da subito in presenza totale.

E peccato che nessuna ricerca sia stata impostata su un campione di scuole per sapere quale percentuale di contagiati asintomatici sia presente in media nelle scuole fra studenti, docenti, personale Ata. La ricerca a campione sulla popolazione italiana curata dall’Istat e operata dalla Croce Rossa questa estate ci ha dato finalmente risposte esaustive sulla percentuale reale di quegli asintomatici sfuggenti a ogni osservazione che però a loro stessa insaputa contagiano gli altri. Si fosse impostata una ricerca simile su un campione rappresentativo di scuole in questo primo mese sapremmo molto di più sui focolai e sui meccanismi di diffusione del contagio in ambito scolastico.

E ancora peccato che non ci siano dati sulla epidemia che distinguano fra le scuole in cui, rispondendo ai criteri disposti dal ministero, si sta senza mascherine in classe, purché seduti distanziati un metro, e quelle in cui invece saggiamente sono state prescritte le mascherine per tutto il tempo di permanenza nell’edificio scolastico.

E inoltre ignoriamo quanto siano distribuiti focolai e quarantene fra i diversi segmenti del percorso scolastico: le abitudini quotidiane dei bambini della scuola primaria e quelle  dei liceali differiscono enormemente. Sarebbe stato utile studiare in quale configurazione si danno meccanismi di diffusione dei contagi più significativi.

Insomma: come si fa a reagire razionalmente a un fenomeno che non conosciamo?

Il ministero annuncia dati raccolti settimanalmente dalle scuole su contagi e quarantene. Ma non è pubblica la modalità di raccolta dei dati stessi. Senza sapere, per esempio, quanti positivi si hanno rispetto a quanti tamponi eseguiti, o quale percentuale di contagi riguardino ragazzi che praticano sport o utilizzano i mezzi pubblici, o hanno attività a maggiore rischio, i dati restano opachi.

Purtroppo sono in generale mancate riguardo alla epidemia indagini rigorose che perseguissero una maggiore comprensione dei fenomeni, indagini che presupponevano standard uniformi e trasparenti di classificazione e quantificazione degli eventi.

Le scuole hanno investito enormi energie per eseguire i dettami relativi alle misure di contenimento della epidemia. Ma non sappiamo di quale efficacia ciascuna di queste misure sia dotata se non sappiamo interrogare empiricamente i risultati. Non perché manchino idee di ricerca, ma perché manca una cabina di regia che produca indagini trasparenti, finalizzate a rispondere a questioni precise e utili.

Viceversa si sono sprecati fiumi di inchiostro in esercitazioni retoriche su quanto l’istruzione sia importante, come se si dovessero scontrare i vessilliferi della cultura contro i barbari. È proprio per fare scuola che si deve capire con quali strategie si può rispondere alla epidemia. Chi ha semplicemente cercato di declassare o ignorare il problema ha fatto perdere tempo al paese e diminuito le difese pubbliche  contro il morbo.

La retorica non convince il virus, i lamenti non lo spaventano. L’epidemia si combatte con soluzioni concrete, e le soluzioni si devono misurare sulla analisi esatta dei fatti e sulla gestione coerente di dati. Soprattutto per ciò che riguarda la scuola le soluzioni sarebbero state migliori se fossero state più robustamente preventive, e non solo a posteriori rispetto all’aggravarsi della situazione.

Adesso la sfida è valorizzare quel 25% in presenza alle scuole superiori. E inventare modalità efficaci di far fruttare la produzione in digitale del 75% delle ore curriculari. È un compromesso che si presta alla sfida di integrare davvero repertori digitali e multimedialità con la relazione diretta in aula, purché tale relazione riscopra davvero il valore dialogico della presenza. Una modularità di quattro giorni può aiutare a superare l’abitudine di assegnare e revisionare compiti da un giorno per l’altro, può rendere necessario inserire accanto alla modalità sincrona un utilizzo asincrono di strumenti differenti.

Il monte ore resta per caparbietà politica o per miopia un intangibile tabù da rispettare. Perciò rendere le numerosissime ore curriculari da offrire in digitale didatticamente valide ingaggia le qualità professionali dei docenti e le capacità organizzative delle scuole.

E sarà fondamentale soprattutto per questo anno scolastico impostare da subito misure speciali di valutazione oggettiva dei risultati di apprendimento parametrate alle diverse condizioni in cui si è fatto scuola.

La scuola è spesso oggetto preferenziale di esercizio retorico, di esibizione di ottimi sentimenti, di rappresentazione di salvifici quadretti di dedizione e spirito missionario. Raramente oggetto di indagine. Si prediligono le discussioni  di principio e si ignorano le necessità di verificare fattualmente le condizioni e le scelte esercitati riguardo all’educazione in base ai risultati.

Meno commozione e più statistica, please.

Per la scuola non fiori ma opere di bene

Ho letto le apprezzabili parole di Tiziano Salvaterra, ex assessore all’istruzione e stimato padre della legge sulla scuola trentina. Legge e sistema educativo che noi ex colleghi assessori delle altre regioni allora invidiavamo. La sua e molte altre voci di persone che la scuola la conoscono, soprattutto quelle di chi per la riapertura delle aule scolastiche ha lavorato indefessamente, testimoniano un attaccamento alla priorità dell’educazione, che forse vede troppa parte dell’opinione pubblica distratta.

Il problema è che per rafforzare il ruolo della scuola, anche dall’attacco della pandemia, ci vorrebbero non solo difese di principio, ma conoscenze puntali delle modalità di diffusione del virus e delle difese che possano salvaguardare almeno un parziale mantenimento della presenza a scuola.

Alcune scuole in Italia lavorano già fin da metà settembre alternando didattica a distanza e didattica in aula. Hanno diviso le classi in gruppi più piccoli, stabilito turni per l’accesso e l’uscita, e riescono a operare un distanziamento più deciso e nello stesso tempo sottraggono la metà della utenza scolastica ai mezzi di trasporto. In Lombardia per esempio molti istituti scolastici hanno scelto questa soluzione, compatibile con le norme sull’ autonomia e con le Linee guida ministeriali.

Peccato che nessun dato sia stato raccolto (o diffuso) dal ministero per valutare una eventuale differenza nella reazione alla pandemia delle scuole che hanno da subito alleggerito la pressione sugli edifici e sui trasporti e quelle che invece sono andate da subito in presenza totale.

E peccato che nessuna ricerca sia stata impostata su un campione di scuole per sapere quale percentuale di contagiati asintomatici sia presente in media nelle scuole fra studenti, docenti, personale Ata. La ricerca a campione sulla popolazione italiana curata dall’Istat e operata dalla Croce Rossa questa estate ci ha dato finalmente risposte esaustive sulla percentuale reale di quegli asintomatici sfuggenti a ogni osservazione che però a loro stessa insaputa contagiano gli altri. Si fosse impostata una ricerca simile su un campione rappresentativo di scuole in questo primo mese sapremmo molto di più sui focolai e sui meccanismi di diffusione del contagio in ambito scolastico.

E ancora peccato che non ci siano dati sulla epidemia che distinguano fra le scuole in cui, rispondendo ai criteri disposti dal ministero, si sta senza mascherine in classe, purché seduti distanziati un metro, e quelle in cui invece saggiamente sono state prescritte le mascherine per tutto il tempo di permanenza nell’edificio scolastico.

E inoltre ignoriamo quanto siano distribuiti focolai e quarantene fra i diversi segmenti del percorso scolastico: le abitudini quotidiane dei bambini della scuola primaria e quelle dei liceali differiscono enormemente. Diversamente incidono gli utilizzi del trasporto pubblico, per esempio. Sarebbe stato utile studiare in quale configurazione si danno meccanismi di diffusione dei contagi più significativi.

Insomma: come si fa a reagire razionalmente a un fenomeno che non conosciamo?

Le scuole hanno investito enormi energie per eseguire i dettami relativi alle misure di contenimento della epidemia. Ma non sappiamo di quale efficacia ciascuna di queste misure sia dotata se non sappiamo interrogare empiricamente i risultati. Non perché manchino idee di ricerca, ma perché manca una cabina di regia che produca indagini trasparenti, finalizzate a rispondere a questioni precise e utili.

L’affermazione che la scuola è sicura è detta col cuore da chi ama la scuola. Ma dovrebbe essere il risultato di ricerche epidemiologiche e statistiche, non dell’ottimismo della volontà.

Molte classi comprese le mie hanno già sperimentato la scoperta di avere dei contagiati fra gli alunni. La mia richiesta di tenere comunque sempre la mascherina durante le lezioni è oggi più comprensibile per i miei studenti di quanto non fosse all’inizio. Stare per ore accanto a una persona contagiata, seppure a un metro di distanza, è tutt’altro che privo di rischi. La prova provata della sufficienza delle misure adottate per le scuole verrebbe dal controllo effettivo dei focolai scolastici. Ma questo presupporrebbe la sistematica e veloce attuazione del tampone almeno su tutti i compagni di classe. Cosa che non avviene affatto. Dopo di che, senza tracciamento, se nella catena dei contagiati asintomatici ( come spesso sono i nostri ragazzi) a un certo punto spunta un sintomatico, magari grave, nessuno sa più da dove arrivi il suo caso. Compresi i docenti meno fortunati.

Gli insegnanti, trattati da lavativi quando si ingegnavano a fare la Dad da casa (ancora mi fa male sentir dire che le scuole sono state chiuse tre mesi, posto che ogni giorno facevo lezione con i miei studenti), adesso sono chiamati, in caso di didattica digitale, da una geniale circolare del ministero dell’istruzione a fare lezione online in presenza, a scuola. Una specie di tributo a quella parte dell’opinione pubblica, arrabbiata e spaventata, che confonde la lotta al virus con la lotta alla prevenzione dal virus.

Movimentare, in tempi di epidemia, ottocentomila persone che potrebbero invece lavorare da casa (senza alcuna motivazione in termini di efficienza del servizio e senza garantire peraltro necessariamente dispositivi e collegamenti più efficaci) è una invenzione burocratica caratterizzata da sottile perversione. Per fortuna che, come atto amministrativo, per adesso non riguarda il trentino.

Scuole aperte e aule chiuse

Da un giorno all’altro la classe è chiusa.

Vuoti i banchi, spenta la luce, la porta serrata perché l’aula va sanificata.

Capita a parecchie classi, in tutta Italia, e capita anche a me.

I ragazzi improvvisamente si trovano dietro lo schermo, perché alla prima ora del primo giorno di quarantena siamo già collegati: che cosa dobbiamo fare prof?

Poi leggo sui giornali la generale levata di scudi contro la chiusura delle scuole e penso che in un certo senso è motivata, l’educazione è la cosa più importante. Come non dargli ragione: io per la scuola ho studiato, insegnato, scritto, formato insegnanti, amministrato, fatto politica, tutta la vita.

La scuola prima di tutto ( anche del calcio? ). E poi la drammatica situazione delle famiglie con bambini, che non sapevano più a che santo votarsi per continuare a lavorare con i figli per casa. La scuola in presenza è una necessità per tanti motivi sacrosanti, educativi e sociali. Te lo proclamano, te lo scrivono, te lo spiegano con toni sempre più veementi e commossi che la scuola deve restare aperta. Ma con la commozione e la retorica sull’afflato dell’ educazione in presenza non si combatte la pandemia.

Ci vogliono soluzioni.

La ministra Azzolina di fronte all’aumento dei casi invece di domandarsi se questa estate ha fatto tutto il possibile per un rientro sereno, ha dato delle cifre relative ad una irrisoria incidenza di contagi a scuola. Ma si riferiscono a fine settembre, quando la scuola era cominciata da due settimane, e in alcune regioni da una. E non ha spiegato con che tipo di analisi tali cifre sarebbero uscite. Da una decina di giorni la curva dei contagi si è impennata: cosa è cambiato dall’inizio di settembre? La catena dei contagi non è immediata, é una specie di staffetta in cui il testimone viene passato, nel giro di qualche giorno, a uno o più altri individui ( più sono più mediamente sale il fattore Ro). Quale è il fattore intervenuto a poter giustificare questo drammatico cambio di passo? La riapertura delle scuole? Questa domanda non ha certo una risposta semplice: non sapremo mai dove e come molti dei tantissimi casi ha contratto il virus. Ma certamente la movimentazione di tutti gli alunni ha modificato la rete dei contatti nel paese. Se si lavorasse meglio su raccolta dei dati e tracciamenti probabilmente capiremmo qualcosa di più.

Nei mesi estivi, mentre il paese scivolava in piena incoscienza sul reflusso della prima ondata di epidemia pensando che tutto sarebbe finito bene a prescindere, chi di scuola un poco ragiona, esperti e educatori, hanno fatto proposte che invece di nascondere la polvere sotto il tappeto indicavano dei percorsi.

Articolazione delle classi in piccoli gruppi e turni, alternanza di scuola in presenza e in digitale, diluizione degli ingressi, contenimento delle ore curriculari. Reperimento di locali, spazi, anche alternativi agli edifici scolastici. E poi piano per il trasposto pubblico, e relativi investimenti per ampliamenti dei servizi di bus, almeno temporanei, con apporti dal privato, visto anche che il turismo latita.

Quanto era nella disponibilità delle autonomie scolastiche è stato spesso fatto: dirigenti e staff hanno passato l’estate programmando, misurando, preparando.

Ma adesso si chiudono le porte delle aule. Perché la retorica non abbatte il virus. E le rassicurazioni sul fatto che sarebbe stato tutto come prima, e che non si doveva pensare ad altro che alla scuola in presenza e solo in presenza, e pure senza mascherina in classe, così le mamme no mask sono contente, si rovesciano nella scuola in assenza.

E fortuna che la didattica digitale integrata, così negletta e demonizzata, ci permette di tenere fermamente il filo del contatto, del dialogo, della vicinanza educativa, almeno con gli alunni più grandi.

L’educazione a distanza è sempre esistita: un tempo erano i libri, oggi anche la faccia, la voce, il messaggio che ci fa presenti da uno schermo. In tempi ordinari integra la scuola in presenza. In tempi straordinari ci si ingegna a farla diventare un buon sostituto. Avrebbe potuto precauzionalmente alleggerire le probabilità di contagio per i ragazzi delle superiori, che sono quelli che hanno una irrefrenabile vita di relazione dopo la scuola, e che prendono i mezzi, evitando di stipare una ventina e spesso più studenti in un’aula. Adesso siamo obbligati di nuovo a usarla, sperando che resti per le quarantene e non per la chiusura.