Non basta chiedere più scuola, se non è scuola di qualità
Bisogna fare scuola fino ad agosto, per recuperare il disastro. Le vacanze aumentano le differenze e vanno limitate. La didattica a distanza ha rovinato una generazione, o almeno ha rovinato quelli che erano sfavoriti. Ci vuole più scuola ogni giorno per recuperare le disuguaglianze.
A ondate successive questi assunti vengono propagati sui social e sui media con tono ultimativo e perentorio, ed il cipiglio grave. Pochi capiscono davvero come funziona o non funziona la scuola. Tutti però ci sono stati. E quindi amano avere delle idee, se possibile robuste e categoriche, su come si dovrebbe intervenire. Si intuiscono alcuni sintomi, non ci si attarda in diagnosi accurate, ma si prescrivono con apodittica certezza delle cure. E questi assunti, che si collocano fra la tautologia e la dichiarazione di guerra al mondo della scuola, piacciono. Perché in quasi tutte le famiglie italiane la scuola è stata, in un momento o in un altro, fonte di cocenti delusioni. Ma pur essendo parzialmente verosimili, queste asserzioni non sono anche parzialmente sbagliate?
In linea di principio è difficile sottrarsi all’evidenza totalmente ovvia che ogni ora che un bambino passa, a partire dalla sua nascita, in una famiglia colta, stimolante, affettiva otterrà sulla sua personalità risultati ben diversi rispetto ad ogni ora passata in una famiglia incolta, non stimolante, anaffettiva. Si dà però il caso che le famiglie reali siano una mescolanza infinitamente variata di queste e molte altre qualità o difetti. Quindi le disuguaglianze, forse le più gravi, sono cadute fra di noi al momento stesso in cui siamo stati assegnati ad una condizione di relazioni primarie. Prima ancora che ad un ceto o a uno status sociale.
La nostra Costituzione ci chiede, e ne siamo orgogliosi, di operare non solo per una uguaglianza formale davanti alla legge, ma anche per una sostanziale rimozione degli ostacoli a favore dello sviluppo e della partecipazione delle persone. Non impone una medietà, e meno che mai una mediocrità generalizzata, ma indica uno slancio verso il superamento dello svantaggio, verso la realizzazione delle potenzialità, verso l’alto.
Una soluzione classica alla disuguaglianza è quella del modello spartano: teoricamente, maggiore è la sottrazione del bambino all’ influenza educativa della famiglia e più ampio è il raggio d’azione della collettività, più forte sarà l’uguaglianza. Certamente se i bambini passassero l’estate a scuola, il pomeriggio a scuola, la domenica a scuola il livellamento sarebbe più efficace.
Tralasciamo per adesso la complessità dei bisogni psicologici dei bambini e dei ragazzi; a che livello riusciremmo a portare gli esiti di un educazione fortemente caratterizzata da una generalizzata equiparazione degli input sugli allievi? Dipende dalla qualità degli insegnamenti impartiti. E quindi dalla ricchezza degli apprendimenti che si riescono a sollecitare. Una scuola mediocre non riuscirebbe che a livellare al basso.
Uscendo dalla ipotesi paradossale e tornando alla realtà: la scuola funziona come emancipatrice e promuove opportunità quando è competitiva con i migliori ambienti di provenienza degli alunni. Una scuola mediocre non risarcisce della mancata sollecitazione culturale, linguistica, espressiva, logica, creativa, progettuale chi ne è stato privato, fortuna che è invece capitata in sorte, senza alcun merito, agli alunni più favoriti. Una scuola pervasiva ma di cattiva qualità potrà semmai abbassare gli standard dei privilegiati, ma non alzare le opportunità degli sfavoriti.
Ma allora per funzionare ed assolvere ai compiti costituzionali la scuola ha bisogno delle migliori risorse umane, delle intelligenze più brillanti, delle creatività più intense. Eppure è il settore in cui sistematicamente, a ondate, si entra senza selezioni. E’ il settore in cui i filtri di accesso, quando ci sono, sono aleatori e imprevedibili, frutto delle improvvisazioni stagionali della politica, con procedure e percorsi introdotti e bruciati nel giro di pochi anni, creando costanti disparità e fortuiti diritti di accesso che nulla hanno a che fare con la qualità professionale. E’ il settore verso il quale, nei territori dove l’economia tira, ci si rivolge solo residualmente. E’ il settore in cui anche quando si favoleggia di aumenti stipendiali non si connettono mai le elargizioni alla professionalità.
Di fronte ad alcuni infelici esiti della scuola italiana (disuguaglianze, abbandoni, sperequazioni fra aree del paese, scarsità delle eccellenze, risultati mediocri nelle valutazioni oggettive delle competenze ) ci si pone spesso (peraltro inconcludentemente) la questione delle risorse allocate, del tempo scuola erogato, delle strutture edilizie disponibili. Tutte condizioni necessarie per l’effettività della scuola.
Ma non si discute della qualità dell’insegnamento, della adeguatezza dei percorsi, della pregnanza della esperienza educativa. Chi volesse riformare davvero la scuola dovrebbe porre come fondamento una seria selezione, preparazione, crescita intellettuale e didattica dei docenti.
Se vogliamo una scuola che sopperisca agli svantaggi, questa scuola deve essere qualitativamente in grado di competere con i contesti più fortunati: deve essere più stimolante, più intelligente, più sollecitante, più motivante della migliore delle famiglie. E’ ora di porsi domande serie sulla qualità e non solo sulla quantità della scuola.
Ma torniamo alla complessità psicologica dell’educazione: siamo sicuri che la prescrizione di tempi di scuola più ampi non debba tenere conto anche della soggettiva disponibilità degli alunni o della concomitante presenza di altri bisogni? Non ci stiamo dimenticando che il bambino necessita un equilibrio fra esposizione alla sfera pubblica e intimità familiare? E man mano che cresce ha bisogno di partecipare ad attività associative, sportive, ricreative fra pari, che affinino capacità socio-affettive e skills trasversali? Gli orari delle strutture educative sono realmente funzionali alle esigenze psicologiche del bambino o devono solo seguire gli orari di lavoro dei genitori? Le scuole per i più grandi devono avvantaggiarsi della motivazione degli studenti o esercitare solo in una logica di coercizione?
Nella accesa discussione sul prolungamento della scuola durante l’estate tutto si è tirato in ballo: corporativismo degli insegnanti, carenze irreversibili di competenze, lavoro dei genitori, chiusure dei sindacati, misurazioni dei contenuti persi; tutto fuorché i bisogni degli alunni, la loro soggettiva condizione di motivazione o di fatica di fronte a una ipotetica frequenza scolastica estiva. Si presuppone che lo stesso ragazzino che per mesi si è defilato dalla dad sia invece assiduo frequentatore di scuola a luglio. Salvo magari scoprire a posteriori che i ragazzi più favoriti hanno maggiormente fruito dei servizi aggiuntivi, e quelli sfavoriti vi si sono sottratti.
Le politiche di conciliazione sono fondamentali. E dopo un anno terribile per le famiglie come questo, la necessità di supporti consistenti nella cura dei figli è una assoluta priorità. I genitori giovani sono i veri eroi della pandemia.
Però nel guardare avanti e oltre alla pandemia ricordiamoci che la soluzione non è solo più scuola, se la scuola non è eccellente. E che la scuola, con la sua verticalità gerarchica, con i compiti di istruzione che la caratterizzano, con la prescrittività di prestazioni e comportamenti, non può essere l’unica agenzia educativa alternativa alla famiglia.