Intellettuali, scrittori, giornalisti, accademici delle più disparate discipline si sono pronunciati, appellati, indignati per la chiusura delle scuole, per la trascuratezza nel ripristino del servizio, per la plateale inadeguatezza della didattica a distanza, per la esplosione delle disparità sociali che solo la scuola in presenza sarebbe in grado di lenire.
Premetto che concordo con slancio sul fatto che è molto meglio fare scuola senza epidemie in corso che con epidemie in corso. Molto meglio avere classi dotate delle migliori risorse piuttosto che classi appese ai giga del telefonino o al traballante collegamento del wifi familiare. Meglio avere classi in cui l’interazione è intuitiva, sensibile, immediata, empatica e sapiente piuttosto che affidata a una chat o a un microfono che fa i capricci.
Sono disposta a concordare con altrettanto fervore con qualsiasi altra tautologia pedagogica, ricordando il magistrale insegnamento di Massimo Catalano che a “Quelli della notte” insegnò alla mia generazione che «Meglio essere ricchi e in salute che poveri e malati».
Non avendo però avuto indicazioni da insigni intellettuali e opinion makers a proposito del fatto che la didattica a distanza avrebbe creato tanti guasti e introdotto così pericolosi precedenti, centinaia di migliaia di insegnanti si sono gettati a capofitto in un lavoro online insolito e inusitato, con mezzi propri sia hardware sia telematici, cercando di mantenere un contatto educativo, di far procedere gli apprendimenti, di mantenere un ritmo di frequentazione e dialogo con le classi.
A distanza di tre mesi adesso si sentono dottamente spiegare come quello che hanno fatto era nella migliore delle ipotesi nullo (inutilità dell’insegnamento senza la vicinanza fisica) e nella peggiore delle ipotesi dannoso (inversione dell’ascensore sociale, solco scavato fra studenti agiati e protetti, e studenti sfortunati).
La maggior parte degli intellettuali che condannano il lavoro degli insegnanti in Dad esercitano tutta la loro professione a distanza: pubblicano sui giornali, parlano in televisione, si esprimono sui media, postano sui social. Non mi pare che però si battano il petto per le difficoltà che esistono nel consumo di libri o giornali o nella corretta fruizione dei media e dei social da parte di una rilevante frazione della popolazione.
Ma si può obiettare che la scuola è un servizio che deve essere per tutti, garantito a tutti. E siamo d’accordo che così sia. Ma la logica allora non può essere “o a tutti o a nessuno”, bensì, piuttosto, allarghiamo, rafforziamo, miglioriamo la portata e la qualità delle opportunità educative per tutti, per tutta la vita, anche durante le pandemie.
In questi mesi molte scuole hanno verificato con questionari rivolti alle famiglie l’efficacia del servizio, le difficoltà dell’utenza, i livelli di gradimento o almeno di accettabilità delle didattiche. Le sedi decentrate del ministero dell’istruzione, le regioni e le autorità locali hanno raccolto ed elaborato questi dati?
Molte scuole hanno messo a disposizione computer o tablet. Il ministero stesso e altre istituzioni hanno erogato risorse. Ci sono indagini serie su quanta parte della domanda da parte delle famiglie sia rimasta inevasa? Su quante risorse occorrerebbe investire e come fare per mettere a disposizione collegamenti decenti a tutti gli studenti?
Metodologie di didattica digitale, repertori di contenuti multimediali, expertise sull’uso di piattaforme e canali: nelle chat fra insegnanti sono circolate discussioni e condivisioni di competenze prima riservate a pochi. Vogliamo che restino e diano frutti per l’ arricchimento di una scuola che educa i nativi digitali o derubricarli a corruzione momentanea di un’idea intangibile di scuola materiale fatta di banchi, aule e campanelle ?
Quello che mi domando è perché sulla scuola infieriscano così tanti opinionisti e parlino così pochi esperti. Come in tanti altri campi del sapere anche quello dell’educazione è oggetto di ricerche rigorose e mi domando come mai mentre per comprendere il corso di una epidemia si debba esercitare un’ attenta modellistica a partire da dati, sulla scuola si possano giudizi inappellabili a partire da sensazioni o categorizzazioni altamente opinabili. Questi tre mesi di didattica a distanza andranno studiati con attenzione: solo chi ha operato sul campo, insegnanti e studenti (e le loro pazienti famiglie alle spalle) avranno una comprensione reale di cosa è successo, solo quando potremo trarre conclusioni comprovate da dati elaborati con ragionevole rigore potremo azzardare valutazioni complessive.
L’aula educa mentre il digitale istruisce e basta? Lo smanettamento sulla tastiera si identifica con l’apprendimento di nozioni mentre l’educazione tradizionale in presenza promuove virtù sociali e civili? Può darsi che digitale e nozionismo siano correlati e che la salvifica didattica in presenza tradizionale sia sufficiente a garantire una ottima educazione. Ma può anche darsi che si diano correlazioni almeno parzialmente inverse. Come in tutti gli ambiti del sapere, anche nel mondo dell’educazione le affermazioni vanno corroborate da indagini e prove.
Per adesso le classificazioni internazionali e nazionali danno la scuola italiana, dove il tradizionalismo non difetta certo, in grande affanno.
Non sono una epidemiologa, quindi non azzardo lezioni su quando e come potremo di nuovo far circolare nelle nostre scuole i nostri allievi.
Ma non posso non chiedermi come mai nel dibattito pubblico la professionalità degli insegnanti non abbia mai voce: l’opinionismo che si esercita sulla scuola è affidato nella grandissima maggioranza dei casi a persone che non hanno mai fatto una sola ora di lezione a scuola. La categoria degli insegnanti appare come una massa amorfa, difficile da guidare e impossibilitata a guidarsi.
Per decenni si è barattata l’immissione degli insegnanti in cattedra, senza standard professionali esigenti e vagliati, con la loro scarsa retribuzione e la irrilevanza e minorità della loro rappresentatività sociale, come risulta in modo appariscente proprio nello stesso dibattito sulla scuola.
Ma quando è stato necessario, durante l’ emergenza della pandemia, in molti hanno dimostrato passione e capacità di riconvertirsi. Nulla di tutto questo deve andare perduto.